Fino a non molti anni fa, con il telefonino non potevi fare altro che telefonare ad amici e colleghi di lavoro quando non eri a casa o in ufficio e già questo sembrava un risultato notevole. Oggi, tra telecamere di ultima generazione e app di qualsiasi genere, gli smartphone – soprattutto quelli più potenti – sono diventati micro-computer tascabili che accolgono i nostri ricordi o dati e calendarizzano i nostri appuntamenti.
Se si rompessero avremmo non pochi problemi, talmente si è accentuata la nostra dipendenza. In nostro aiuto, da qualche tempo, sono intervenute alcune tecnologie abilitanti. Tra queste anche quella ricondizionata che prova ad allungare il ciclo di vita dei nostri telefonini, come scrivo in questo articolo.
Sono ormai, come una protesi, l’estensione delle nostre braccia. Non riusciamo più a frequentare la nostra quotidianità senza di essi. Eppure i telefonini cellulari, e ancor più gli smartphone, a ciascuno di noi e all’ambiente che ci circonda, ad ascoltare gli scienziati, fanno più male che bene.
Oltre ai noti disturbi neurologici e ai tessuti cognitivi, infatti, i device di ultima generazione sono delle “micro-miniere” di materiali preziosi che, sempre più spesso, dopo essere stati assemblati in un modello tecnologico utilizzato in media per quasi due anni, finiscono in discariche speciali o, peggio, interrati illegalmente in suoli agricoli.
Nella consapevolezza che la crisi pandemica non ancora del tutto superata è, prima di tutto, una crisi sistemica nella quale la dimensione ecologica ed economica sono le due facce della stessa medaglia – quella di una realtà aumentata dalle fragilità sociali e ambientali – ma anche che i modelli di sviluppo, su impulso della Commissione Europea guidata dalla sua presidente Von der Leyen, dovranno essere sempre più organizzati nei dettami dello sviluppo sostenibile e dell’economia circolare, non poche startup, in tutto il mondo, da alcuni anni stanno sperimentando la “tecnologia ricondizionata”.
Con tale espressione indichiamo, perciò, la modalità attraverso la quale si vorrebbe sia ridurre a monte i Raee (rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche) e, dunque, limitare la pratica insostenibile dell’estrazione delle “terre rare” (agita nei PVS sfregiando i diritti umani); sia recuperare e riutilizzare i componenti essenziali negli accessori attraversati da problemi tecnici o estetici per realizzare device “come nuovi” da reimmettere nel mercato a prezzi decisamente più accessibili.
La rilevanza strategica di questo approccio “recycled-based”, incardinato in quel “diritto alla riparazione” che si vorrebbe veder riconosciuto giuridicamente dall’Unione Europea entro il 2021, è confermata, peraltro, dai numeri. Secondo il rapporto “Global e-waste monitor 2020” delle Nazioni Unite, infatti, nel solo 2019 è stato stabilito, a livello mondiale, il record di quasi 54 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici generati, con un aumento del 21% in 5 anni e una media di oltre 7 kg per ogni abitante del pianeta.
Con lo smart working, eredità immutabile della crisi pandemica, la domanda di apparecchiature elettroniche funzionalmente performanti ed economicamente convenienti, inoltre, è cresciuta esponenzialmente: per l’istituto di ricerca Counterpoint Technology Market Research gli smartphone ricondizionati hanno raggiunto il 10% del totale globale, pari a 120 milioni di apparecchi, per un valore di 17 miliardi di dollari.
Per le più giovani generazioni, tuttavia, fondamentali sono anche i benefici ambientali integrati indotti dalla diffusione internazionale di tale tecnologia eco-compatibile. Le soluzioni ricondizionate, oltre a ridurre la produzione di rifiuti tecnologici, consentono di evitare l’immissione in atmosfera di oltre l’80% di CO2 e la devastazione di numerosi habitat naturali da preservare, invece, per la loro biodiversità.
A conferma, infine, della bontà economica ed ecologica di questi nuovi processi industriali e di artigianato tecnologico che vedono coinvolte anche nel nostro Paese sempre più imprese e startup innovative, nell’urgenza di un sistema trasparente di monitoraggio sulla qualità e sicurezza dei materiali impiegati in queste lavorazioni, gli organismi comunitari hanno deliberato che i soggetti agenti in questo mercato dell’economia circolare devono dotarsi delle certificazioni sulla gestione del rischio ambientale (ISO 14001) e sulla gestione dei rifiuti tecnologici (R2:2013).
Il successo di questa tecnologia, dunque, sembra assicurato.