Nonostante il fenomeno delle isole di calore sia sempre più presente e diffuso, con impatti crescenti sulla salute e il benessere psicologico delle persone, in Italia si parla ancora pochissimo di temperatura di bulbo-umido. La temperatura di bulbo-umido, letta da un termometro coperto da un panno imbevuto d’acqua a temperatura ambiente, è diversa sia dalla temperatura a terra sia dalla temperatura dell’aria e consente di registrare i valori dell’umidità presenti in atmosfera.
In un’estate che ricorderemo tra le più calde di sempre, conoscere questo parametro sarebbe molto utile, dunque, non solo per rispondere alla domanda sulla temperatura massima che un corpo umano è in grado di sopportare prima di collassare, ma anche perché ci permetterebbe, ancora una volta, di comprendere l’urgenza di intraprendere, nelle nostre città, processi multipli e integrati di conversione ecologica e di adattamento ai cambiamenti climatici.
Uno studio pubblicato su Science Advances rivela, infatti, che nessun essere umano può sopravvivere, per periodi prolungati e pur in presenza di ombra, quando la “wet-bulbe temperature” raggiunge i 35°C, perché, con più vapore acqueo nell’aria, l’evaporazione del sudore dal corpo e il suo raffreddamento sono più difficili. Se immaginiamo una temperatura di 39°C e un’umidità relativa del 77%, il bulbo umido sarà di 35°C, il valore di rischio più alto.
Con la tropicalizzazione delle temperature medie stagionali che rischia di stravolgere gli equilibri termo-igrometrici degli italiani, soprattutto di quelli del Mezzogiorno più geograficamente esposto e vulnerabile, è davvero necessario innescare tutti quegli interventi di deimpermeabilizzazione dei suoli e di raffrescamento urbano, mediante le soluzioni basate sulla natura, che ridurrebbero gli sprechi energetici costituiti dai condizionatori, limiterebbero i rischi della siccità e degli incendi, e restituirebbero un po’ di sollievo a tutti quelli che vorrebbero vivere in territori davvero ospitali e sostenibili.