A chi non piace la birra? Su Eco in Città è stato pubblicato il mio ultimo articolo sull’economia circolare, dedicato questo mese a una esperienza per me davvero straordinaria, raccontata anche da Lifegate.
In principio, “a far impazzire il mondo”, era stato un noto analcolico. Da quel claime pubblicitario, di acqua – ma probabilmente anche di birra – sotto i ponti ne è passata tanta. La birra, sin dal Medioevo, disseta l’Uomo nel suo cammino evolutivo.
Non sorprende, perciò, che anche oggi, pur attraversati da una crisi pandemica dolorosa – figlia di una crisi climatica ancor più spaventosa dei cui effetti, forse, non ci si preoccupa ancora abbastanza – siano bevande come le birre a descrivere “i gusti” dell’era geologica e “ i guasti” dell’era ecologica che stiamo attraversando.
In particolare, tra le cause costituenti il grave “debito ecologico” che rischiamo di lasciare alle prossime generazioni riconosciamo lo spreco alimentare (responsabile fino al 10% delle emissioni globali di gas serra) che trasforma una risorsa vitale come il cibo in un rifiuto.
In Italia, per la pandemia, stanno scivolando nella povertà oltre 2 milioni di famiglie (il 50% in più rispetto al 2019). Eppure, nonostante questo, ogni giorno quasi 13mila quintali di pane rimangono invenduti e ciascuno di noi in media continua a buttare annualmente nella pattumiera quasi 25 kg di cibo.
Per provare a curare questa ferita, una giovane startup piemontese ha deciso di agire contro lo spreco alimentare e di investire sulla trasformazione del pane non consumato in birre artigianali di qualità.
Ad oggi, da ogni cesto da 150 kg di pane recuperato sono prodotti 2500 litri di birra con una riduzione di almeno il 30% del tradizionale malto d’orzo e di quasi 1365 kg di CO2 immessi in atmosfera.
La birra Biova, dal nome della classica pagnotta piemontese, è la testimonianza di come, sotto il mantello dell’economia circolare, sostenibilità sociale e ambientale siano tra loro intimamente interconnesse.
Il progetto, anche confrontandolo ad altri assimilabili, presenta alcuni elementi di originalità. In primo luogo, la sinergia con alcuni attori della grande distribuzione alimentare che prima conferiscono il pane e poi vendono la birra.
Poi, non disponendo volutamente di un proprio birrificio, la scelta di impiegare gli impianti delle aziende agricole partner individuate secondo il criterio della prossimità ai luoghi di raccolta del pane, con il beneficio di limitare al necessario gli spostamenti stradali e di poter commercializzare tre differenti versioni (una bionda classica tipo Kölsch, una IPA e una Cream Ale).
Infine, la volontà – attraverso la Biova Bread Beer San Salvario (una delle tre) – di sostenere i processi solidali innescati nell’omonimo quartiere torinese fortemente provato dalla crisi sanitaria.
Nello specifico, il ricavato dalla vendita della birra, nata dalla trasformazione del pane raccolto nel medesimo territorio e distribuita poi nei locali aderenti all’iniziativa, viene devoluto ad una onlus impegnata nel ritiro delle eccedenze dai piccoli commercianti per creare “cestini” da donare a chi si ritrova in uno stato di bisogno.
L’esperienza della birra Biova dimostra, pertanto, come la sub-cultura dello scarto possa essere efficacemente contrastata e sconfitta dalla contro-cultura del riscatto e del diritto a vivere in armonia con il Creato.
E conferma, infine, che una altra economia è possibile: una economia civile, in simbiosi con l’ecologia integrale, che promuove l’inclusione sociale, l’innovazione ambientale e la coesione territoriale.
Anche noi di Eco in Città, accogliendo uno dei claime della startup piemontese e sorseggiandone idealmente una delle birre, lo diciamo con convinzione: “Noi lo spreco ce lo beviamo”.