Su Eco in città, per la mia periodica rubrica sull’economia circolare, scrivo della sorprendente versatilità dell’avocado.
Per i suoi numerosi elementi nutrizionali e per la quantità di ricette nelle quali è sempre più inserito, l’avocado è ritenuto da medici e cuochi un “super-alimento” e come tale, negli ultimi anni, ha conosciuto una diffusione esponenziale. Questo frutto dalla dolce e cremosa polpa, che giunge in Europa e in Italia dal Sudamerica, non è, tuttavia, carbon e “human” neutral.
L’avocado, infatti, che percorre quasi 10mila chilometri per raggiungere le tavole dei consumatori europei con una emissione in atmosfera non inferiore ai 18,5 chilogrammi di CO2, è indirettamente responsabile anche della negazione di alcuni diritti umani.
Le popolazioni, soprattutto di Cile e Messico – i due principali paesi esportatori mondiali dell’”oro verde” – da almeno un decennio sono costrette dai grandi e potenti proprietari terrieri ad abbeverarsi dalle cisterne a costi sempre più alti e non più dalle sorgenti pubbliche e gratuite, ormai destinate alla produzione del prezioso frutto che necessita di un fabbisogno pari a 740 litri di acqua per una sola tonnellata.
Molte regioni del Cile nelle quali l’avocado è coltivato, pertanto, anche a causa dei cambiamenti climatici, hanno iniziato a conoscere la desertificazione, per l’aridità raggiunta dai suoli, quando non anche la deforestazione, per le superfici che progressivamente subiscono una notevole trasformazione d’uso.
Nonostante queste enormi e complesse criticità sociali e ambientali che, per esempio, le piantagioni del caffè o del cioccolato non hanno conosciuto – pur presentando molte analogie – perché ormai radicate nelle nostre consuetudini alimentari, molti degli scarti dell’avocado come le foglie o il grande nocciolo, ma anche i suoi stessi semi, rappresentano delle ideali e originali materie naturali e biodegradabili che, nei dettami dell’economia circolare, possono essere impiegate per realizzare, dalla moda al design, dalla cosmesi al packaging, prodotti dalla notevole utilità.
Le esperienze virtuose, del resto, non mancano.
Proprio dal Messico e da un team multidisciplinari di studiosi nasce “Biofase”, la startup che ha trasformato, in un progetto industriale sostenibile, l’idea di usare i semi dell’avocado per realizzare una leggerissima, ma resistente e duttile, bioplastica, che degrada in appena 240 giorni, con la quale è possibile realizzare sia imballaggi sia posate, cannucce e piatti, riducendo esponenzialmente la quantità di plastica monouso che inquina i mari e che accresce le discariche del territorio.
Dai semi e dal nocciolo, inoltre, è possibile estrarre, da quanto si evince da un recente studio della Pennsylvania State University, non solo sostanze anti-infiammatorie e anti-ossidanti a beneficio di chi per la propria salute le assumesse mediante prodotti farmaceutici, ma anche coloranti naturali per tingere in modo a-tossico capi d’abbigliamento o oggetti di design.
Quale soluzione, quindi, potrebbe essere adottata, anche in area mediterranea, per impiegare questo colorato e saporito frutto dalle notevoli proprietà nutrizionali, ma anche utile per l’economia (circolare) locale senza comprometterne i fragili ecosistemi naturali?
Una ipotesi potrebbe essere di coltivarlo pprincipalmente in serre, come stanno sperimentando in Sicilia e in Sardegna, per tentare di ridurre drasticamente le emissioni climalteranti dei trasporti, nonché impiegando risorse idriche depurate in modo oculato per evitare sprechi e disastri in territori già paesaggisticamente compromessi.
P.s. Di moda circolare e sostenibile ho scritto qui. Sull’esempio dell’avocado, anche il fico d’india presenta eccezionali potenzialità, come evidenzio in questa riflessione.