Ho sempre ritenuto un ossimoro l’espressione “edilizia sostenibile” perché ho sempre creduto che l’edilizia dovesse o debba essere una modalità per garantire un benessere non solo economico a chi progetta e costruisce, ma anche fisico o psichico a chi in quella costruzione ci vivrà probabilmente per decenni.
Negli ultimi decenni, anche per la scarsa propensione all’innovazione da parte soprattutto dei costruttori e degli imprenditori, nel nostro Paese si è costruito molto e male, determinando non solo un dissennato consumo di suolo, ma anche una qualità o una funzionalità dell’abitare non adeguato alle esigenze della contemporaneità.
Ho trovato molto interessanti, perciò, le esperienze di cui scrivo in questo articolo, certamente non le uniche nel panorama delle costruzioni eco-compatibili, che indicano come un’altra via sia possibile e sia desiderabile.
L’ennesimo tassello nel mosaico, di un’Europa che si propone di diventare un continente ad emissioni inquinanti nulle entro un paio di decenni, è stato posto solo pochi giorni fa.
Il Consiglio, la Commissione e il Parlamento dell’Unione Europea hanno approvato, infatti, i testi finali sui criteri di impiego delle risorse del Just Transition Fund e dei fondi regionali del Cohesion Fund con i quali, per il periodo 2021-2027, si sosterrà, soprattutto, il paradigma dell’economia circolare e, nello specifico, i suoi pilastri del riuso e del riciclo, nonché della riduzione a monte dei rifiuti, azzerando, pertanto, il drenaggio di liquidità pubblica per discariche e inceneritori.
Questo provvedimento, di poco successivo all’ultimo decreto “End of Waste” sul recupero e riciclaggio dei rifiuti inerti edili provenienti dalle demolizioni, dovrebbe innescare e corroborare, anche nel nostro Paese, i processi di risignificazione dell’edilizia, uno dei settori industriali non solo più energivori, ma anche più climalteranti.
Del resto, da decenni e non sempre in maniera legale o trasparente, i rifiuti speciali, tipicamente prodotti in un cantiere edile, vengono conferiti nelle discariche, con la conseguente compromissione dello stato di salute dei suoli e l’alterazione dei suoi cicli naturali.
Per raggiungere, entro il 2030, gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile e cogliere la lezione inflitta dalla dolorosa crisi pandemica non ancora superata – che si sta sempre più configurando come una crisi ecosistemica – occorre rovesciare completamente, pertanto, il nostro sguardo adottando soluzioni tanto radicali quanto originali, nei dettami di un approccio sia pragmatico sia olistico.
Le proposte di recuperare e riciclare i mattoni usati, nonché di impiegare quelli realizzati a base di canapa con la calce, in ottemperanza a quanto premesso in apertura e in coerenza alla necessità di innovare la filiera delle costruzioni, vanno proprio in tale direzione.
La prima possibilità nasce dall’ingegno dell’azienda danese Gamle Mursten, con il progetto “Rebrick”. I creativi professionisti scandinavi, attraverso una tecnologia all’avanguardia che permette il lavaggio automatizzato dei blocchetti di laterizio già impiegati (mediante solventi naturali e “raspatura vibrazionale”), si propongono, quindi, di reimpiegarli per nuove costruzioni. Tale innovazione, inoltre, consente di evitare l’emissione in atmosfera di 2,5 Kg di CO2 per ogni mattone, considerato l’intero ciclo di vita.
Ad ancor più alto contenuto tecnologico ed ecologico, infine, è il progetto del “Biomat”. Il “biomattone” in canapa e calce, infatti, realizzato senza alcun additivo chimico, rappresenta la soluzione ideale per realizzare – magari anche valorizzando il recentissimo superbonus del 110% – green building di ultima generazione in grado di assicurare una elevata salubrità indoor, ma anche di essere assolutamente performanti sia in inverno sia in estate, proprio per le diverse e complementari proprietà meccaniche, fisiche e chimiche della canapa.
Dei suoi usi ho scritto qui, per chi volesse approfondire.