Possibile che le pale del fico d’india, ossia dove sono attaccati i frutti, non possano essere recuperate e riusate? Anni fa mi facevo spesso questa domanda. Oggi a tale quesito, evidentemente che più di qualcuno si è posto nel mondo nel corso degli ultimi anni, oggi sembra possibile dare alcune prime interessanti risposte, come rivelano le applicazioni descritte nel mio ultimo articolo pubblicato su Eco In Città.
Alimento irrinunciabile delle estati italiane e della dieta mediterranea (per i suoi notevoli benefici nutrizionali), pur avendo origine messicana, il fico d’india si sta rivelando, curiosamente e sorprendentemente, elemento naturale versatile ed ottimale per chi, dai campi agricoli ai laboratori di ricerca, sta esplorando soluzioni innovative per favorire l’epifania e la crescita di modelli locali di economia verde e circolare.
L’Italia, come in pochi forse immaginano, è potenzialmente tra le leader globali dell’economia circolare per le tecnologie eco-compatibili di cui dispone e, dunque, anche e soprattutto con un “smart material” come il fico d’india non dovrebbe perdere la “partita” del futuro.
Ancor più verificando che siamo il terzo produttore al mondo, dopo Messico e Stati Uniti, e il primo in Europa, con il contributo prioritario della Sicilia, e secondariamente della Puglia e della Calabria.
Nella Trinacria che rischia la desertificazione a causa dei cambiamenti climatici e il cui terreno, oggi tendenzialmente semi-arido o argilloso, potrebbe perdere le sue originarie condizioni di fertilità o naturalità, la coltura del fico d’india potrebbe avere una funzione ecologicamente salvifica e paesaggisticamente strategica perché, oltre a trattenere la CO2 e l’acqua piovana, concorrerebbe proprio a proteggere l’integrità e la salubrità del sottosuolo.
A conferma dell’urgenza di indagare vie alternative per il contrasto alla desertificazione, anche attraverso il fico d’india, l’Università di Palermo sta realizzando il progetto Life “Desert Adapt” con Caudarella, l’impresa agricola dell’agronomo Michele Russo attiva nel territorio di Caltagirone (Catania) che realizza pure marmellate e gelati.
Dal restauro dei suoli a quello dei beni culturali il passo è breve. L’Enea, attraverso un progetto di ricerca con una università messicana finanziato dal Maeci, sta impiegando il gel presente all’interno delle pale del fico d’India, essendo stato scoperto che la mucillagine è un ottimo fissativo e ha una biorecettività molto bassa, ottenendo, pertanto, una malta più omogenea che presenta una porosità migliore e una più alta resistenza alla pressione meccanica. L’italica creatività, soprattutto quando fa rima con sostenibilità, non si esaurisce alla protezione del patrimonio culturale.
Le cladodi, ossia le pale del fico d’india, diventano, inoltre, anche suggestive lampade – grazie al talento di Renato Belluccia – mentre le fibre sono già ad oggi impiegate per realizzare sia leggerissimi ed eleganti occhiali da sole (su iniziativa dello stilista leccese Cristiano Ferilli); sia mobili dalle originali venature cromatiche (su idea del produttore pugliese Marcello Rossetti); sia tessuti come ecopelli, a basso impatto ambientale e “cruelty-free”, con i quali realizzare abiti, borse, cinture per orologi e, finanche, poltrone o divani.
Le innovazioni di Bioinagro, altra realtà generativa siciliana (è originaria di Licata) che si propone di realizzare bioraffinerie integrate capaci di valorizzare il potenziale di nuovi materiali biobased come il fico d’india per realizzare bioplastiche per ridurre gli imballaggi o biomolecole per l’uso farmaceutico, confermano, infine, la necessità di investire sempre più e meglio – non sprecando le risorse del Next Generaion Eu, per esempio – in modelli di economia circolare che sappiano decodificare il linguaggio dei territori e sappiano aprire la porta del futuro, per le più giovani generazioni, tenendo insieme sostenibilità e solidarietà, economia ed ecologia.
P.s. In questo blog mi sono già occupato di bioeconomia circolare, quando ho raccontato i prodigi del bambù.