Il suolo è vita e il suo progressivo degrado dovrebbe preoccuparci moltissimo. Su Eco in Città, nel mio ultimo articolo ho voluto richiamare ed evidenziare gli esiti di una ricerca internazionale.
“Il suolo sano, nell’intero territorio continentale, ad oggi non supera il 15% e questa percentuale deve salire al 75% entro il 2030, se non vogliamo compromettere seriamente la partita dell’approvvigionamento alimentare e della resilienza climatica”.
La presidente dell’Unione Europea, Ursula Von der Leyen, ne è consapevole e lo dice chiaramente: il suolo è una risorsa naturale non rinnovabile, decisamente dissipata e contaminata negli ultimi decenni per sostenere i diversi processi di sviluppo industriale, dal cui stato di salute dipende, però, la nostra stessa sopravvivenza per la sua capacità di erogare i diversi servizi ecosistemici e a beneficio dei quali, dunque, servono politiche innovative e creative in grado, prioritariamente, di affrontare il diffuso degrado dei terreni esacerbato anche dai cambiamenti climatici.
Il suolo, infatti, è biologicamente e chimicamente un “carbon stock”, ossia un serbatoio naturale (parallelamente agli oceani e alla superficie marina) per immagazzinare e stoccare un gas serra climalterante come l’anidride carbonica che concorre, se lasciata nel sottosuolo, ad elevarne la fertilità.
Per sostenere e incrementare la produttività agricola, da perseguire con modalità naturali tali da ridurre progressivamente l’abuso dei pesticidi e dei prodotti chimici, la ricerca scientifica internazionale, da diversi anni e nella volontà di agire ove possibile nei dettami della (bio)economia circolare, sta cercando di individuare e sperimentare soluzioni smart.
L’ultima delle quali, secondo gli scienziati dell’Istituto Basco per la Ricerca Agricola e lo Sviluppo (Neiker), ha origine nell’uso razionale di alcuni sottoprodotti del processo produttivo della birra, da mischiare poi al letame: in particolare, si ricorre alla bagassa, ovvero il residuo della macinazione dei cereali, e alla colza.
La ragione è semplice: il loro alto contenuto di azoto favorisce l’attività dei microrganismi benefici nel suolo, consentendo la scomposizione della materia organica come il letame e uccidendo i parassiti che danneggiano le colture.
Il fine, pertanto, risulta molto chiaro: far crescere la produttività attraverso i rigenerati microrganismi del suolo. Con questo trattamento biologico, in appena 12 mesi, la resa agricola può aumentare anche del 15% e, pertanto, i ricercatori spagnoli intendono approfondire ulteriormente la materia nell’ambizione di poter ulteriormente impiegare prodotti organici per la biodisinfestazione dei suoli e l’incremento della loro fertilità, seminando l’economia circolare e raccogliendo il cambiamento sostenibile atteso.
P.s. Sulla birra e su come possa essere prodotta da alcuni specifici scarti alimentare, nel segno sempre dell’economia circolare, rimando a questo mio articolo.