Una bella intervista, su Resto al Sud, ad una talentuosa attrice teatrale pugliese, Daniela Baldassarra.
Nella Puglia nella quale è nata una avveniristica “industria del cinema”, come testimoniano da un lato il successo di Luca Medici (alias Checco Zalone) e dall’altro quello di rassegne come il Bif&st, anche l’“universo” del teatro – si spera con analoghe fortune – sembra stia iniziando a generare le sue stelle luminose.
Scoprendo il talento di Daniela Baldassarra, può succedere di ripensare a Giorgio Strehler e a questa sua espressione: “.. io non so perché lo faccio il teatro, ma so che devo farlo, che devo e voglio farlo facendo entrare nel teatro tutto me stesso, con quello che sono e penso di essere e quello che penso e credo sia vita. Poco so, ma quel poco lo dico”.
Daniela Baldassarra – scrittrice e drammaturga, formatasi con l’autore e regista armeno Jean Jacques Varoujean – infatti, anche per la sua capacità di passare da contenuti più leggeri, affrontati con comicità, a contenuti più impegnativi, affrontati con originalità, è un esempio positivo che rivela cosa voglia dire restare al Sud, facendo della propria passione una professione. E per conoscerla meglio, l’ho voluta incontrare.
Come nasce questo tuo amore per il teatro?
Ho incontrato il Sig. Teatro tanti anni fa. Inizialmente mi occupavo esclusivamente di scrittura e regia. I miei primi lavori, sulla violenza e la solitudine, erano di tono drammatico. Poi un’esperienza di vita molto forte si è trasformata anche in un’evoluzione professionale e in maniera apparentemente “improvvisa”, ma in realtà non lo è stata, anzi, è stato un cambio molto ponderato: sono passata alla comicità e il 1 ottobre del 2014 ho debuttato con “Zero a Zero”, che in poco tempo è diventato il ‘manifesto’ del mio nuovo modo di intendere il teatro.
E, come quasi sempre accade, nella rivoluzione netta ho trovato il mio equilibrio. Il teatro deve riflettere e rappresentare il tempo in cui si vive, deve avvicinare le persone, deve trasportarle nei suoi contenuti, con la comicità strumento impareggiabile.
Il teatro, come sostiene qualcuno, pur nella finzione, riflette davvero quel che siamo?
Assolutamente sì. Il teatro, il buon teatro, ha questa possibilità enorme: si fa specchio della vita vera. Lo spettatore si riconosce: nelle abitudini, nelle mediocrità, nelle imperfezioni e ha l’opportunità di fermarsi a riflettere sulla propria esistenza. Questo, ovviamente, quando ci si predispone bene.
Il teatro è un incontro, in verità è una sorta di dialogo, quindi ognuno deve fare la sua parte. La comicità e l’ironia aiutano perché la risata crea aggregazione, annulla le barriere, combatte le resistenze emotive, avvicina agli altri.
Il tuo talento nasce proprio dalla tua ironia e dal tuo sarcasmo. I tuoi monologhi indagano molto la realtà ed esplori temi sociali anche delicati. Ce ne parli?
Io mi occupo principalmente di tematiche femminili. Ma non si potrebbe parlare di donne senza raccontare anche gli uomini. Tutto sommato, quindi, l’argomento cardine dei miei spettacoli è l’ancestrale guerra dei sessi. “Zero a Zero” e “Nei nostri panni”, attraverso carrellate comiche di donne, uomini e situazioni, raccontano in verità la solitudine delle donne, i cliché di cui siamo tutti vittime più o meno consapevoli, il dilemma tra l’essere e l’apparire.
“Paolo e Francesca_ipotesi semiseria”, il mio nuovo lavoro, nasce, invece, dal mio grande amore per “La Divina Commedia” e, attraverso una rilettura comica del V canto dell’Inferno, racconto in realtà il nostro tempo e la nostra incapacità di amare. Incapacità di amare che sfocia ormai toppo spesso in episodi di violenza.
Oggi la violenza di genere sembra sia un fenomeno ingestibile e indomabile. Gli episodi, rivela la cronaca, sono quasi quotidiani. Esiste secondo te una “questione maschile” in questo Paese che non viene affrontata?
È un argomento davvero complesso. Il problema principale è che siamo in un momento di vera e propria emergenza. L’affanno che viviamo, rispetto alla piaga della violenza sulle donne, quasi ci toglie lucidità e capacità di pensare opere di prevenzione.
Perché la triste verità è che una soluzione non c’è, la violenza si è infiltrata nei tessuti più profondi della nostra società, nelle famiglie, nei rapporti di coppia, nuclei che dovrebbero rappresentare il massimo della sicurezza. Sono saltati tutti i riferimenti, tutte le certezze, tutti i codici etici. Ecco perché poi in modo pressoché disperato ci mettiamo a esporre teli rossi alle finestre. Certo, le manifestazioni di solidarietà e protesta sono belle e importanti, ma non raggiungono la massa.
Perché, diciamolo francamente, la massa non si mette a riflettere davanti a un telo rosso. Lo fanno sempre e solo le persone già sensibili all’argomento. Fondamentale, dal mio umile punto di vista, sarebbe un intervento mirato nelle scuole. Educare le nuove generazioni all’amore, alla parità, al dialogo, alla non violenza. Solo un diverso approccio culturale potrebbe salvarci perché la violenza sulle donne è un problema principalmente culturale.
Il teatro potrebbe essere usato come mezzo educativo per i più giovani e in modo particolare per quelli frequentati da disagio sociale ed economico?
Il teatro è una grande possibilità in questo senso. Convegni, tavole rotonde, discorsi e paroloni, ormai allontanano le persone – bruttissimo a dirsi, ma è così – e restano solo incontri tra addetti ai lavori. Certo è bene che ci siano, ma sono modalità comunicative che non riescono a stabilire un “contatto”. Io ho esperienza a riguardo e gli stessi relatori durante questi incontri si distraggono, rispondono al cellulare, ascoltano solo se stessi. Si assiste a tristi passerelle in cui il microfono diventa un perverso oggetto di potere.
Tutti concentrati sulle proprie parole, quelle degli altri non interessano. E allora? Tutti parlano e nessuno ascolta? I cambiamenti derivano quasi sempre dall’ascolto degli altri. Ecco perché il teatro e il cinema rappresentano una possibilità, perché la gente si ritrova in una posizione di “ascolto”, che diventa partecipazione, che diventa riflessione, che diventa confronto, che diventa dialogo. Quindi veniamo catapultati nella dimensione del noi. In una dimensione plurale. E non di isolamento.
Quali sogni e speranze hai per il tuo futuro? Come ti vedi tra 10 o 20 anni?
Non mi immagino. Ho smesso di immaginarmi. Credo che si pensi al futuro quando si è molto molto giovani, col tempo l’idea del futuro si confonde nel presente, nel qui e ora. Trovo molto più interessante il passato, quando viene ricordato e sfruttato per migliorarsi. Un sogno e una speranza, però, ce l’ho: vorrei che le donne potessero ricominciare a credere all’ esistenza del Principe azzurro.