Il 6 aprile 2009 ci svegliammo con la notizia del terremoto a L’Aquila. Centinaia di vittime innocenti – alla fine saranno 309 – e decine di miliardi di euro di danni.
Tredici anni dopo, in un mondo completamente trasfigurato dalla violenza delle crisi economiche, pandemiche e belliche, la ricostruzione della città e la riappacificazione con la comunità non sono ancora completate, con migliaia di adolescenti e giovani che sono diventati altrove professionisti e genitori.
Con migliaia di persone che negli anni all’Aquila sono tornate da turiste angosciate e non da residenti appassionati, da anelli di una catena umana ormai logorata e disunita. Dopo 13 anni, L’Aquila non vola ancora.
In un Paese culturalmente vecchio e politicamente marcio come il nostro in cui ancora non si riesce a riformare la legge fondamentale dell’urbanistica del 1942, che non ha mai investito nella prevenzione e nella manutenzione sistemica del fragilissimo paesaggio e in cui la rigenerazione urbana continua ad essere più evocata che realizzata, il terremoto aquilano è lì a ricordarci che le città hanno un’anima solo se sono vissute.
Se “l’orologio della vita”, nonostante l’impegno profuso dall’ultimo commissario alla ricostruzione Giovanni Legnini, torna a scandire le emozioni, se la paura può essere vinta dalla gioia, se i fallimenti sono valorizzati per plasmare cambiamenti, se nessuno viene lasciato indietro, se, insomma, si trasformano radicalmente e profondamente tenendo insieme tradizione e innovazione.
L’Aquila è nel cuore dell’Italia e degli italiani. Ho ricordi nitidi delle mie visite di studio alla città, quando da studente di ingegneria prima e da neolaureato poi entrai nella zona rossa del centro storico per capire cosa fosse successo.
Spero davvero che le risorse del Pnrr non siano sprecate, ma investite efficacemente e strategicamente per far tornare a battere il suo cuore.
Ne gioiremmo tutti.