Di moda ne capisco poco, per non dire niente. Eppure il settore, per la quantità e la qualità dei materiali impiegati per decenni, è stato ed è ancora – sebbene con decisivi progressi – uno dei più energivori e inquinanti. Alcune esperienze di riuso e di riciclo di vestiti vecchi, come quella che qui racconto, mi hanno aiutato a capire molte cose importanti ed essenziali.
I cittadini italiani sono, in Europa, tra i maggiori produttori individuali di rifiuti in un anno: oltre 170 kg pro-capite. Questo infelice primato, ancor più nella stagione lunga e larga del programma comunitario del Green New Deal tra i cui pilastri riconosciamo la strategia dell’economia circolare, è contrastato in tutto il Paese, tuttavia, con diverse modalità.
Nel Mezzogiorno, ancora privo della necessaria e strategica infrastruttura industriale che consentirebbe di “chiudere il ciclo”, si contano, diffusamente, puntuali buone pratiche ed esperienze innovative in grado di conciliare la sostenibilità con la solidarietà.
E’ il caso dei Charity Shop nei quali vecchi abiti, collane, tovaglie, libri, cuscini, scarpe e perfino videocassette vengono trasformati in nuovi elementi utili e di uso quotidiano dalla cui vendita sono ricavate risorse per sostenere progetti socio-assistenziali.
Tra i primi in Italia, il Charity Chic di Bari – nato nel dicembre del 2012 su impulso delle sue muse ispiratrici Pamela Melchiorre e Stefania Grandolfo – ha negli istituti della condivisione e dell’inclusione i suoi punti di forza.
La condivisione è rappresentata dall’essere diventata un’officina della creatività e un laboratorio di generosità dove giungono tonnellate di indumenti, per donazione di tanti cittadini, che invece di diventare rifiuti per discariche vengono selezionati, recuperati e trasformati, per esempio, in borse e collane. L’inclusione, invece, viene testimoniata dal principio della solidarietà innescata a beneficio di chi è in difficoltà.
Per molti anni, infatti, al netto delle minime spese di gestione dell’impresa sociale, quanto ricavato è stato donato ad Apleti, una onlus impegnata a portare serenità e convivialità ai bambini oncologici dell’Ospedale di Bari.
Più recentemente, il Charity Chic di Bari ha deciso di sostenere il percorso della cooperativa Crisi che ha nella giustizia riparativa la sua missione, ossia di insegnare ai pre-adolescenti e agli adolescenti le tecniche per risolvere con gentilezza e pacatezza episodi di intolleranza o violenza, rispettando quel comandamento laico della fratellanza per come oggi richiamato dalla nuova enciclica di Papa Francesco.
E l’ulteriore messaggio bergogliano dell’ecologia integrale, in nome del quale la giustizia sociale e ambientale sono i due volti della stessa medaglia, ha trovato un’ulteriore applicazione durante la crisi pandemica non ancora superata.
Le due instancabili e tenacemente creative socie del Charity Shop barese, sempre sostenute nella loro attività da altrettante valide volontarie, in questi ultimi mesi hanno chiesto ed ottenuto dal loro network civico indumenti non solo in ottimo stato, ma soprattutto puliti, per ottimizzare, in tutta sicurezza, il loro impegno e accrescere sia la quantità sia la qualità di quanto reimmesso nel mercato della solidarietà sostenibile.
Per aiutare ancora più e meglio chi, con la crisi sanitaria, sta rimanendo indietro e rischia di scivolare nella povertà.
Anche per questo, perciò, gli indumenti in un buono stato di conservazione che non vengono lavorati finiscono nella disponibilità del Banco di Abbigliamento Solidale della città capoluogo della Puglia per essere successivamente donati ai migranti e ai senza fissa dimora ed evitare, ancora una volta, la dimensione dello spreco e la produzione di rifiuti inutili.
A conferma che quando l’economia circolare apre le braccia all’ecologia relazionale non fa bene solo all’ambiente, ma anche al cuore rendendo davvero generative e innovative le città che viviamo.